Dopo la pandemia
… di fronte alla sfida di continuare ad essere umano
di Ferruccio Venanzio
20 ottobre 2021
Chiedersi cosa ci lascerà la pandemia quando ancora con essa ci stiamo confrontando è difficile, ma in ogni caso è certo che la nostra vita non sarà più la stessa. Lo dicono esperti, psicologi, sociologi, ma chiunque se ne sta rendendo conto, ciascuno reagendo secondo il proprio carattere, il proprio equilibrio psichico, le proprie capacità di sopportazione e resilienza, il proprio vissuto.
Le conseguenze sulla vita sociale degli individui in un periodo che ormai si sta dilungando troppo, contrassegnato da un’inevitabile diminuzione delle libertà di movimento, di cambiamenti di abitudini, di normative sanitarie a volte contradditorie, di obblighi e limitazioni in tutti i settori sia pubblici che privati, peseranno su di noi in varia misura e con caratteristiche diverse.
Nel passato, allo scoppiare delle grandi epidemie (peste, influenza spagnola) si tendeva ad isolare gli infetti. In questa pandemia quasi tutti i Governi hanno adottato misure diametralmente opposte, emanando normative atte a limitare i movimenti, i contatti, gli assembramenti degli individui sani cercando di impedire in questo modo i contagi e le inevitabili ripercussioni sul Sistema Sanitario. Abbiamo quindi assistito al blocco di molte attività, anche economiche, della scuola in presenza, del turismo e della ristorazione, con interventi e divieti nella vita di ogni giorno.
Le persone che si trovavano in difficoltà ancor prima della pandemia hanno visto peggiorare la qualità della vita sia sociale che economica e quelle sole, anziane, deboli, malate, si sono ritrovate prigioniere di se stesse con l’aggravarsi di patologie, senso di abbandono e perdita di abitudini consolidate e rassicuranti.
Cosà ci può insegnare un evento così invasivo? Come ci comporteremo il giorno in cui potremo riprendere una vita sufficientemente normale?
Si potrebbe ipotizzare che, nel migliore (o peggiore?) dei casi, forse ritorneremo a comportarci come prima. Un approccio più ottimistico, invece, basato sull’esigenza naturale delle persone di vivere in società e avere relazioni continue con i propri simili può far pensare ad un ritorno alla socializzazione virtuosa, ad un’attenzione e ad un’apertura verso il prossimo, con sorrisi non più celati dalla mascherina e con un atteggiamento di maggior comprensione ed empatia, cercando di riappropriarci di abitudini messe da parte per troppo tempo. Un aumentato senso di appartenenza, quindi, con la consapevolezza di essere tutti nella stessa barca e una visione più globale dell’esistenza umana in un mondo sempre più interconnesso, dove gli spostamenti delle persone sono più facili e sempre più frequenti.
Pierpaolo Donati, sociologo e autore del libro Dopo la pandemia (ed. Città Nuova) insieme al teologo Giulio Maspero, scrive: “… dovremo muoverci in un altro orizzonte, quello che coltiva i beni relazionali, anziché l’individuo che compete per il successo e per consumi sempre più volatili, privi di una relazionalità umana significativa”. E aggiunge: “… mi sento di prevedere una convergenza di forze sociali, economiche e politiche verso un serio ripensamento cooperativo del nostro mondo occidentale”.
Ma l’autore ipotizza anche una visione un po’ meno ottimistica: “Quando la pandemia sarà finita, il posto di questo virus sarà preso da altri agenti patogeni, quelli di una cultura darwiniana che usa consumi e tecnologie per selezionare la popolazione e creare un mondo di fantasmi e di cyborg. È qui la sfida per avviare un altro modello di sviluppo sociale, in cui la cultura delle relazioni dovrebbe essere oggetto di una cura speciale”.
In questo momento, pur con la campagna vaccinale in corso, la situazione non è certo ancora tranquilla. Dobbiamo convivere con le polemiche e le proteste di fasce della popolazione con convincimenti e opinioni contrastanti e l’adozione dell’obbligo del green pass per poter viaggiare, lavorare, entrare in ristoranti, stadi, teatri, cinema e musei ha esacerbato gli animi di alcuni.
Possono essere confortanti le parole di Yuval Noah Harari, storico e saggista dell’Università Ebraica di Gerusalemme: “Al di là della fede, è evidente che l’uomo postmoderno si è illuso di controllare il futuro, ricercando una dimensione post-umana, mentre la pandemia lo ha posto di fronte alla sfida di continuare ad essere umano. […] Ma, all’alba del III millennio, il risveglio dell’umanità è accompagnato da una stupefacente constatazione: la maggior parte delle persone di rado ci riflette, ma da qualche decennio siamo riusciti a tenere sotto controllo carestie, pestilenze e guerre. Di sicuro questi problemi non hanno ancora trovato una soluzione definitiva, ma incomprensibili e incontrollabili forze della natura sono state trasformate in sfide che possono essere affrontate. Non abbiamo bisogno di pregare alcun Dio o santo che ce ne liberi. Possediamo infatti conoscenze sufficienti riguardo a ciò che occorre per prevenire carestie, pestilenze e guerre”.
E infine può far ben sperare anche la citazione di Charles Kenny dal suo libro La danza della peste (ed. Bollati Boringhieri): “L’ultimo mezzo secolo ha dimostrato che le epidemie non sono inesorabili. E il Covid-19, pur nella sua tragedia, dimostra che non siamo più disarmati”.