L’ho visto “Con i miei occhi”

 

di Carmen Gasparotto

4 luglio 2024

Esco dalla stazione lasciandomi alle spalle la voce stridente e disarmonica della signora che urla: “Attenzione pickpocket, attenzione borseggiatrici, attenzione borseggiatori!”. Ricordo che il tormentone ha spopolato con un video su TikTok: milioni di visualizzazioni e il ritornello, sbarcato oltreoceano, usato come sottofondo delle azioni difensive dai tifosi della NBA. D’istinto mi guardo alle spalle e controllo che la zip dello zaino sia ben chiusa.

Il caldo è opprimente, l’umidità staziona a mezz’aria in una “quasi nebbia” immobile e rappresa. All’imbarcadero della linea 2 sono sola ed è un miracolo. L’isola della Giudecca, una lunga lingua di terra a forma di spina di pesce ricca di orti e giardini, è dislocata rispetto al circuito massiccio dei turisti; il vaporetto poco affollato ne è testimone. “Palanca!..” il marinaio annuncia la fermata lanciando la corda sulla bitta e annodandola con rapidità e maestria.

La mia visita al Padiglione del Vaticano alla Biennale d’Arte di Venezia 2024, che ha luogo presso il carcere femminile della Giudecca, è fissata per le quindici e so che è quasi impossibile chiedere un ingresso anticipato. L’antica chiesa di Sant’Eufemia mi ripara dal caldo umido e molle offrendomi la sua frescura e il suo assoluto silenzio. Le due porte laterali, aperte una sul giardino della canonica e l’altra sul canale, creano un lieve e inaspettato giro d’aria.

Non è difficile riconoscere la facciata della casa di reclusione: il grandissimo murales di Maurizio Cattelan, che è già stato definito l’immagine più iconica della Biennale di Venezia, è ben visibile installato all’esterno della cappella che si affaccia sulla Fondamenta delle Convertite. Father è il titolo dell’opera, l’unica fotografabile di tutta l’esposizione. La pianta di due piedi nudi di proporzioni gigantesche, sporchi di terra e segnati dalla fatica di un lungo cammino, sembra uscire dalla facciata. La parte più “bassa” del corpo che si prende tutta la centralità. Perché? La risposta, al di là dei richiami artistici di tutto rilievo – dal Mantegna al Caravaggio – sembra darcela Papa Francesco che, in occasione della sua visita al Padiglione così si è espresso: i piedi hanno a che vedere con la povertà, come condizione strutturale dell’uomo, ma povertà anche come scandalo sociale. “Aporofobia” è il neologismo tremendo su cui il Papa ha fatto leva e che significa “fobia dei poveri”. Due piedi enormi, segnati dalla fatica della vita, sono dunque una breccia aperta sul muro dell’aporofobia. Un’installazione che stravolge sia le convenzioni artistiche che quelle carcerarie. Dalle finestre sbarrate arrivano voci di donne che litigano e il pianto inconsolabile di un bambino.

Davanti all’ingresso, accanto al pannello giallo della Santa Sede che presenta l’evento e fornisce le indicazioni per l’ingresso (solo su prenotazione come da sito internet dedicato), una signora attende facendosi aria davanti al viso con il ventaglio. Chiedo se sta aspettando di entrare. Mi risponde che ha suonato ma che nessuno ha risposto. Le domando se ha prenotato la visita e lei stupita mi risponde che no, non ha prenotato, ma ha il passaporto… viene dall’Argentina, è un medico. Lo dice come se fosse una referenza, una corsia preferenziale. “Purtroppo questo è un carcere ed è tutto un po’ meno semplice” mi sento di dirle.

Glielo conferma l’agente penitenziaria non appena apre la porta: “Registration, you need registration…” e lo dice mentre prende la mia carta d’identità e mi fornisce il pass e le chiavi per l’armadietto dove metto lo zaino con il cellulare spento. Alla fine della visita mi accorgerò di quanto sia stato importante non usare lo smartphone, non guardare al tempo dell’orologio, non scattare foto con la necessità di “far vedere che c’ero” magari con qualche filtro, magari con qualche contraffazione. Sostare davanti al reale, diventare parte di un’esperienza comune, guardare con il cuore e “con i miei occhi”. Chiedo all’agente quante donne detenute siano presenti. 91 mi risponde.

E quanti bambini? Solo due, ma si riempirà. La risposta mi raggela. (1)

Il gruppo di quindici persone è al completo. Un’agente davanti e una al termine della fila: possiamo andare. Il giro nella serratura delle grosse chiavi d’ottone apre e richiude cancelli e genera inquietudine, lo vedo negli sguardi brevi e sfuggenti. Una donna sorridente ci accoglie nella saletta punto di ristoro per le agenti penitenziarie. Si capisce che è “formata” – sono le stesse donne detenute a guidarci lungo il percorso – inizia con raccontare la storia della Casa di Reclusione: da ex monastero del XII secolo, divenuta poi ospizio per prostitute – la struttura di mille metri quadrati prevedeva un percorso rieducativo alla vita – e in seguito, sotto l’ordine delle Suore di Carità, luogo di reclusione e custodia femminile. Con la riforma del Corpo di Polizia penitenziaria del 1990, alle suore vennero sottratti i compiti istituzionali.

La donna-guida veste un abito bianco e nero dal taglio sartoriale e bellissimi pantaloni in seta. Indossa scarpe eleganti color rosa cipria. I capelli sono da colore piega appena fatti. Sulle labbra un rossetto rosso vivace. Ci spiega che il vestito è stato confezionato da lei all’interno del laboratorio di sartoria e che tutte le compagne (dice così: compagne) indossano lo stesso completo.

Dice di osservare i quadri alle pareti: sono della suora Corita Kent, artista e attivista americana icona della Pop Art.

Veniamo guidate lungo un corridoio in mattoni rossi, un doppio muro, dove sono esposte le opere di Simone Fattal: tavole in lava smaltata recanti versi poetici e disegni composti dalle stesse donne detenute in collaborazione con l’artista. Alla fine del corridoio un grande occhio sbarrato azzurro (“rappresenta le cose che non si vogliono vedere” dirà la nostra guida) dialoga con un’altra installazione, anch’essa al neon, posta all’interno del cortile centrale: Siamo con voi nella notte, di Claire Fontaine. “Quando le paure ci vengono a trovare, quando la solitudine sembra senza fondo, quando ci sentiamo sole, questa luce ci dà sollievo”, commenta la donna.

La donna, la guida, la detenuta. Sento che quella persona ha bisogno di un nome, non so se è previsto, ma so che devo chiederlo. “Rosaria” risponde. “Mi chiamo Rosaria” e seppur con la voce sommessa lo ripete due volte. La sensazione è quella di essersi ri-conosciute.

Nel cortile ci indica dove è atterrato l’elicottero di Papa Francesco. “Nessun Papa era mai venuto qui prima di lui, ne siamo onorate e gli siamo grate per aver scelto proprio noi.”

L’orto enorme e ben curato mi fa sentire altrove. Due donne con un lungo spago teso da testa a testa della fila, radicano piantine nella terra. Rosaria ci spiega che si produce tutto da coltivazione biologica e che gli ortaggi vengono venduti ogni giovedì mattina con un banchetto di fronte al carcere. Le piante officinali dell’orto vengono impiegate per produrre cosmetici naturali nel laboratorio di cosmesi.

La bellezza delle installazioni eseguite con stoffe colorate insieme all’artista Sonia Gomes e appese al soffitto della Chiesetta sconsacrata – delle vere e proprie sculture sospese – mi fa guardare in alto. Bellezza, leggerezza e colore; c’è bisogno di arte, c’è bisogno di farsi arte. Il sottofondo della musica d’organo rende questo luogo un luogo d’ascolto.

Dalle foto ritratto di sé bambine o dei loro affetti e consegnate all’artista Claire Tabouret, sono nati quadri bellissimi. Vedere sé stesse sotto una luce diversa di grande bellezza e tenerezza offre altre possibilità: una ricostruzione interiore che parte da lontano e che orienta al futuro.

L’intenso e commovente cortometraggio in bianco e nero dal titolo “Dovecote” (colombaia, piccionaia) di Marco Perego, conclude la nostra visita. Interpretato dalle stesse donne detenute e dall’attrice Zoe Saldana, star del cinema americano, ci dice della resilienza delle donne, della loro vulnerabilità, della solidarietà. Della grande opportunità di essere state viste, ascoltate, capite. Un’esperienza umana dove l’arte crea forme di appartenenza e di inclusione a cominciare dagli ultimi, dagli invisibili, dagli “Stranieri ovunque”. (2)

  • La Casa di Reclusione Femminile della Giudecca ospita al suo interno l’ICAM (Istituto a Custodia Attenuata Madri), una struttura destinata a madri con bambini.
  • “Stranieri ovunque” è il titolo della Sessantesima edizione della Biennale d’Arte di Venezia.