Niente è come sembra

 

di Giorgio Pilastro

È nelle sale cinematografiche da qualche giorno l’ultimo film del regista giapponese Hirokazu Kore’eda, L’innocenza. La sceneggiatura (Palma d’oro al Festival di Cannes del 2023) è firmata dal noto autore (soprattutto televisivo) Yûji Sakamoto. Il titolo per la distribuzione nazionale, L’innocenza appunto, è perlomeno discutibile. Più congruo quello originale Kaibutsu, in inglese e per il circuito internazionale, Monster (Mostro). Forse il titolo italiano, decisamente più edulcorato, deriva dal fatto che la trama del film si dipana attraverso le vicende che riguardano in particolare un undicenne Minato (il bravissimo Soya Kurokawa) e il suo compagno di classe, il piccolo Yori. Nonostante il titolo impegnativo (Mostro) non si tratta di un racconto legato a baby gang, a bambini emarginati o cose simili. Tutt’altro. Si tratta di ragazzini che frequentano una normale scuola di una piccola città del Giappone, con delle famiglie alle spalle. Bambini, quindi, apparentemente senza particolari problemi o disagi. Chi sono allora i mostri o il mostro?

È la domanda che accompagna tutta la vicenda, sapientemente raccontata dallo sceneggiatore. Una vicenda che ci fa ricordare i versi di una canzone di Franco Battiato: “Niente è come sembra. Niente è come appare”.

Il film è intervallato, nelle sue tre unità, dalla ripetizione della scena dell’incendio di un Hostess bar che sarà osservata da prospettive diverse dai protagonisti della narrazione.

I comportamenti di Minato (alcuni strani e inusuali comportamenti) preoccupano la giovane madre Saori, da poco vedova (Sakura Ando, è stata Nobuyo Shibata in Un affare di famiglia il film di Kore’eda vincitore della Palma d’oro per il miglior film a Cannes nel 2018). Dalle affermazioni del figlio si convince che il ragazzo è vittima delle angherie (bullismo) da parte del nuovo maestro elementare Hori. Cerca di far valere le proprie rimostranze, scontrandosi con la impenetrabilità, seppur estremamente educata, del mondo della scuola. In particolare, della preside, anziana e colpita recentemente da un grave lutto familiare. Sono i mostri?

Il quadro cambia completamente, quando il punto d’osservazione diventa quello del maestro. Assolutamente incolpevole di quanto gli viene attribuito: gli episodi di bullismo (che effettivamente ci sono) sono in parte opera proprio di Minato nei confronti del compagno Yori. Un bambino gracile, sensibile, incapace di difendersi, vittima ideale dei compagni. Umiliato anche dal padre (frequentatore presunto dell’Hostess bar) che lo rimprovera ingiustamente affermando che il suo cervello è stato sostituito con quello di un maiale. Frase che diventa una delle chiavi di volta di tutta della vicenda.

La terza visuale è quella che in qualche modo tenta di dare un punto di riferimento vicino a quello che si potrebbe chiamare verità, se, però, come detto, niente, nemmeno quella che ci potrebbe far piacere essere la verità, è come sembra, come appare. Minato e Yori sono legati da un rapporto molto più intenso di una semplice amicizia. Ma vivono in modo confuso e alterno questo loro legame. Si chiedono se sono loro i mostri, con un cervello sostituito con quello di un maiale. Trascorrono pomeriggi in un vecchio vagone della metropolitana abbandonato che curano e abbelliscono come una loro tana, il loro rifugio.

Kore’eda ci ha abituati a queste analisi e introspezioni nelle relazioni, soprattutto quelle familiari nelle quali il legame sentimentale è determinante rispetto a quello del sangue o dei vincoli sociali, strutturali o di qualsiasi tipo essi siano. Anche in questo caso una relazione sentimentale genuina viene snaturata e incompresa da coloro che ricoprono i ruoli istituzionali, famiglia e scuola in questo caso. Nessuno li ha capiti. Forse non ha fatto nessuno sforzo per comprenderli. Chi sono, appunto, i mostri? I bambini, che temono di esserlo o chi  sta loro accanto?

Il finale è una travolgente esplosione di gioia dei due undicenni in una corsa sfrenata ignari di cosa sta succedendo “fuori”, inconsapevoli anche di essere scampati al nubifragio di un tifone. Un finale un po’ anomalo per il regista che ha voluto fornire un elemento di apparente verità che forse non era strettamente necessario.

Rimane impressa anche dopo la stupenda e turbinante conclusione una frase della preside a Minato, la quale, dopo aver definito il suo dramma personale e avuto un moto di comprensione dei confronti dell’alunno gli dice: “Se soltanto alcuni possono averla, quella non è felicità: non ha senso. La felicità è qualcosa che chiunque può avere”.