I gesti per dirlo

 

di Carmen Gasparotto

Se la notte ha un colore è il colore del buio eterno. Un colore che inquieta, sbalordisce, spaventa. Un colore amaro, un buio senza misericordia. Per giorni mi è parso di non capire, per giorni ho visto la notte. Per giorni mi sono chiesta se esistano ancora le parole, se servano.

Riccardo, 17 anni, nella notte tra un sabato e una domenica di fine agosto ha sterminato la sua famiglia. Prima il fratello minore, Lorenzo, cinque anni più piccolo di lui, poi i genitori. Una ferocia e una forza difficili anche solo da immaginare. Tutto poche ore dopo la festa per il compleanno del padre. Dopo la ferocia il candore della sua autogiustificazione: “Li ho uccisi perché mi opprimevano”.

Una villetta a schiera nell’hinterland milanese – di quelle con i mattoncini rustici e lucernari sui tetti – le luci della festa, i nonni che abitano a qualche casetta di distanza dalla loro. “Aveva tutto”, diranno.

Nelle foto sui giornali Riccardo è ritratto con la famiglia; indossa una maglietta blu della Puma. Sono tutti in piedi, sulla prua della barca. Il mare è color turchese e sorridono tutti. Il volto di Riccardo è oscurato per la privacy, ma sono quasi certa che sorrida anche lui. Un ragazzo normale, Riccardo.

Prima dell’orrore Riccardo ascoltava musica rap, seguiva in tv la Ferrari e la sua squadra, la Juventus. Una passione su tutte: la pallavolo che praticava in una palestra a pochi chilometri da casa. I genitori, grandi lavoratori, non perdevano una partita del figlio. La mamma condivideva sui social tutti i successi sportivi del primogenito. Riccardo invece sui social non condivideva nulla. Nessun post. Seguiva gli amici stretti, la società di pallavolo, i cantanti, gli sportivi. Di sé non c’è nulla. Di sé solo il vuoto, quello che nessuno aveva notato.

Mentre l’onda tellurica della tragedia spazza via vite, storie, aspettative, ci si interroga: potrebbe capitare anche a noi? Esistono dei segnali premonitori? C’è chi sostiene che episodi come questo sono sempre avvenuti, che l’episodio di Paderno Dugnano ha il sentore del male e altro non è che uno dei tanti esempi di famiglicidio che ha caratterizzato la storia del nostro tempo e del tempo passato.

Psicologi e psicanalisti dicono di come a volte venga trascurato il disagio affettivo che caratterizza il mondo dell’adolescenza, di come la testimonianza genitoriale, oggi senza modelli, sia obbligata a reinventarsi navigando in mare aperto. Al contempo, quanto i media sanno valorizzare gli infiniti atti di testimonianza famigliare positiva e non solo esibire drammi efferati che di fatto si possono contare sulla punta delle dita?

Nella ricerca a tentoni, il buio impenetrabile della notte e il pensiero mi portano al Beccaria, il carcere minorile dove è rinchiuso Riccardo. Vedo i cancelli, le porte pesanti, tutte simili, del carcere; il personale di sorveglianza, gli educatori. Sento che dovrei consegnarmi a un ambiente che mi obbliga a spogliarmi delle mie sicurezze, dei miei preconcetti. Le persone, i ragazzi, le ragazze che potrei incontrare – li chiamano ragazzi a rischio, bulli, delinquenti, ragazzi di strada – mi potrebbero consegnare la loro vita segnata da storie di sofferenza. Un consegnarsi a vicenda che ci dice di come la vita sia dono, reciprocità e com-passione.

Il cappellano del Beccaria, don Claudio Burgio, lo conosco per la prima volta in tv, mentre viene intervistato al telegiornale. Dice che Riccardo si è voluto confessare, che lui, pur essendo un prete, non si aspettava questa richiesta. Dice che il ragazzo ha vissuto il sacramento in maniera vera, che si è svuotato. (Mi dico che i preti, talvolta, sono anche dei bravi psicoterapeuti).

L’intervista continua e il cappellano afferma che lo ha molto colpito il desiderio di Riccardo di andare in Ucraina – una notizia che abbiamo tutti sottovalutato. Vorrebbe andarci per capire da chi vive la guerra come si affronta il dolore.

Lucido è lucido, continua, anche rispetto a quanto dichiarato e alle conseguenze. Bisognerà dare tempo perché, forse, tutto non è chiaro nemmeno nella sua percezione. Alla domanda della giornalista: “Posso chiederle cosa gli ha detto per consolarlo?”, don Burgio si commuove: “Non gli ho detto tante parole. Forse non ci sono parole, a volte i gesti le sostituiscono. Gli ho messo una mano sulla spalla, era importante essere lì… prendergli le mani, quelle mani un po’ ferite… Non è stato facile.”

Mi commuovo anch’io e la mia ricerca di parole si placa. Percepisco tutta la pietas di quell’incontro, quella vera, non una commiserazione distaccata. Un sentimento di intima consonanza con il dolore dell’altro che diventa anche tuo.