A partire da Lorenzo

di Carmen Gasparotto

15 febbraio 2022

La parola “dignità” è stata pronunciata diciotto volte da Sergio Mattarella nel suo secondo discorso d’insediamento alla presidenza della Repubblica. È stata declinata in vari modi, sempre sottolineando come essa debba rappresentare un punto fermo nel nostro cammino; l’ago che indica la direzione anche quando cambiano i contesti esterni, quando ci troviamo a mettere in dubbio ciò per cui vale la pena impegnarci, e magari combattere. La risposta al nostro stare al mondo in relazione con l’altro, con gli altri esseri umani che ci donano umanità e che, a nostra volta, restituiamo.

Uno dei passaggi del discorso del presidente Mattarella accostava la parola dignità alle morti sul lavoro. Quelle morti che “feriscono la società e la coscienza di ciascuno di noi: perché la sicurezza del lavoro, di ogni lavoratore, riguarda il valore che attribuiamo alla vita. Mai più tragedie come quella del giovane Lorenzo Perelli, entrato in fabbrica per un progetto scuola-lavoro… ” Ecco, Lorenzo. Lorenzo, i suoi diciott’anni appena compiuti, la passione per la meccanica industriale, il motocross e il tempo trascorso con gli amici. L’accanimento del destino, quasi una beffa, una tragica beffa, in quell’ultimo giorno di tirocinio formativo presso un’azienda metalmeccanica in provincia di Udine. Una pesante barra d’acciaio si stacca dal carroponte e fatalmente colpisce Lorenzo alla testa. Una fatalità crudele, una parabola cupa che, ancora una volta, ci interroga sui tanti, troppi casi in cui il lavoro uccide.

Ma la storia buia di Lorenzo ci offre spunti per ulteriori riflessioni. Uno di questi riguarda i giovani e le loro scelte, le diverse personalità, la nostra tendenza a giudicare e a omologare. I giovani del nostro tempo, sì, loro. Quelli dipendenti dal loro smartphone, quelli che il lavoro non lo cercano o quando viene loro offerto lo rifiutano – gli “sdraiati” per citare il titolo di un libro di Michele Serra – quelli che si sottraggono anche allo studio. Ma i giovani del nostro tempo sono anche quelli che si laureano lavorando per mantenersi gli studi, quelli che vincono borse di studio per dottorati di ricerca presso importanti università (spesso all’estero), quelli che coltivano passioni, quelli che s’impegnano nel volontariato, quelli che, come Lorenzo, crescono in piccoli paesi dove il lavoro assume un’importanza e una trasmissione quasi valoriale all’interno della vita comunitaria.

Un’altra importante riflessione riguarda la scuola e gli obiettivi che quest’ultima dovrebbe proporsi e che, forse, dovrebbero riguardare la formazione della personalità e il senso critico. Il mercato del lavoro, la trasformazione della società sono variabili di cui tenere conto, ma senza in alcun modo modificare i compiti fondamentali della scuola. I Pcto (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento), ovvero la vecchia Alternanza Scuola-Lavoro, sono da tutti astrattamente apprezzati, ma sulla loro utilità, sui risultati ottenuti e sui rischi che implicano, i pareri sono molto discordanti.

“La si finisca con l’alternanza scuola lavoro, a scuola si deve diventare uomini, a scuola si deve riportare la letteratura, non portare il lavoro. La letteratura è il luogo in cui impari cose come l’amore, la disperazione, la tragedia, l’ironia, il suicidio… come si può formulare un pensiero se ti mancano le parole? Non si pensa o si pensa poco se non si hanno le parole.” Così, in un’intervista, il filosofo e psicanalista Umberto Galimberti.

Nel 1976 il linguista Tullio De Mauro aveva fatto una ricerca per vedere quante parole conosceva un ginnasiale: il risultato fu circa 1.600. Ripetuto il sondaggio vent’anni dopo, il risultato fu che i ginnasiali del 1996 conoscevano dalle 600 alle 700 parole. Oggi, la maggior parte delle cose che sappiamo, dalle più elementari alle più complesse, non lo dobbiamo al fatto di averle lette da qualche parte, ma semplicemente di averle viste in televisione, al cinema o sentite alla radio o dentro le cuffie collegate a un telefono o a un iPad.

“Guardare è più facile che leggere, per cui l’homo sapiens, capace di decodificare segni ed elaborare concetti astratti, è sul punto di essere soppiantato dall’homo videns, che non è portatore di un pensiero, ma fruitore di immagini, con conseguente impoverimento del capire, dovuto all’incremento del consumo di televisione e di internet. E, com’è noto, una moltitudine che ‘non capisce’ è il bene più prezioso di cui può disporre chi ha interesse a manipolare le folle” (Umberto Galimberti – La parola ai giovani).

I tanti doni offerti dalla lettura di un buon libro li vediamo quando incontriamo adolescenti che, non immuni dall’inquietudine di questo passaggio della loro vita, hanno evitato l’afasia del linguaggio, la povertà delle idee e della fantasia, l’atrofia dei sentimenti. Sono adolescenti che non si annoiano e che, grazie ai libri, viaggiano fuori dalla quotidianità con la mente e con il cuore. Spesso sono gli insegnanti che stimolano gli studenti alla lettura. Sono insegnanti che “sanno portare il fuoco”. Portano cioè la parola, coltivando con amore la possibilità di stare insieme, di far esistere la cultura come possibilità di una Comunità, esaltando l’unicità del singolo, il proprio talento, senza inseguire l’immagine di un allievo ideale. È la parola che insegna e apre nuovi mondi, ogni volta come in un risveglio nuovo che ci porta fuori dall’incubo. Dentro a ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. A partire da te, Lorenzo.