Migranti e migrazioni

di Claudio Calandra

19 gennaio 2024

Il fenomeno migratorio desta, in molti, notevoli perplessità ed interrogativi, che derivano tra l’altro da una scarsa conoscenza della vicenda storica e non solo. Lo conferma il fatto che meno di due europei su cinque si considerano ben informati sulle questioni relative al fenomeno migrazione.

L’evento che colpì mediaticamente l’opinione pubblica italiana risale all’anno 1991, quando 20.000 albanesi sbarcarono dalla nave Vlora nel porto di Bari, seguiti dal ‘91 al ‘93 da circa 300.000 albanesi. Il Presidente Cossiga definì la situazione come un’aggressione contro la sovranità italiana. La politica d’accoglienza conobbe alti e bassi, fino al 1996, anno della legge Bossi-Fini, che intendeva rendere più difficile la regolarizzazione. La migrazione comunque non si arrestò. Nel 2003 circa due milioni di stranieri vivevano legalmente in Italia, provenienti da paesi extracomunitari (di cui un terzo dall’Africa), cui si aggiungeva un altro milione circa di persone senza documenti.

Il fenomeno è ben più antico.

Dopo la seconda guerra mondiale, tracciati i nuovi confini, milioni di persone sono state deportate o cacciate dalle terre dove vivevano. Il più grande fenomeno migratorio europeo avvenne quando la costituzione degli stati nazionali unitari determinò il rimpatrio forzato (che mascherava talvolta la pulizia etnica) dei non autoctoni verso i paesi di origine. È stato calcolato che il fenomeno della mobilità in quel momento storico ha interessato circa diciassette milioni di persone, ma il processo è continuato in seguito agli eventi in Ungheria nel ‘56, in Jugoslavia nel ‘90.

L’Italia era uscita danneggiata dalla guerra e i governi succedutisi promuovevano la migrazione verso gli Stati Uniti e l’Argentina. Nel dopoguerra il numero degli emigranti si attestava sulle 150.000 unità annue, sebbene un sondaggio del ‘46 rivelasse che la metà della popolazione maschile adulta sognava di partire. Al governo americano, dubbioso per quell’esodo di massa, De Gasperi rispose che quella forza lavoro disoccupata ed inutilizzata poteva essere una minaccia e un elemento di debolezza per la comunità del Patto Atlantico ma ciò non convinse il governo statunitense, per cui, ferme le restrizioni americane, il governo italiano cominciò a guardare con interesse alle destinazioni europee, quale alternativa offerta ai “comunisti dallo stomaco vuoto”.

Le migrazioni europee si svilupparono nel dopoguerra con gli accordi tra Germania Federale-Italia, Turchia, Jugoslavia per reclutare i cosiddetti Gastarbeiter (lavoratore straniero), presto seguiti da accodi con il Belgio, la Svizzera, la Francia, i Paesi Bassi e la Scandinavia. Nel ‘53 ebbe origine la Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), che prevedeva fra l’altro scambi nazionali di manodopera. Si aggiunse poi la Oece (Organizzazione europea per la cooperazione economica) ma la sbandierata mobilità del lavoro trovò limiti e ostacoli risultanti da varie clausole dell’accordo: “se lo vuole il datore di lavoro”, “se non si trovano lavoratori locali”, “se ciò non rappresenta una minaccia per la pace industriale” e comunque solo “se uno stato membro ritiene opportuno aumentare il numero di lavoratori in determinati comparti con l’ammissione di lavoratori stranieri”.

Accanto alla migrazione esterna prese piede anche quella interna. In Italia la popolazione rurale, che nel ‘50 rappresentava la metà del totale, scese ad un terzo nel 2000 (a causa della migrazione interna verso il nord oltre che della migrazione esterna). La stessa cosa è successa in Spagna, Portogallo e perfino in Svezia, dove vennero costruiti circa un milione di appartamenti per ospitare i cittadini svedesi, che si spostavano verso le aree industrializzate.

Non si pensi che le migrazioni interne interessassero solo l’Europa dell’ovest. Anche nei paesi dell’est la migrazione svolse un ruolo importante: in Unione Sovietica gli operai si spostavano verso le aree industrializzate e verso l’Asia centrale. Cuba e Vietnam inviavano in Europa dell’est i loro Gastarbeiter, tanto che a fine secolo i Vietnamiti rappresentavano un terzo dei migranti nella repubblica Ceca.

Dal ‘45 in poi l’Europa ha fatto grandi progressi. Il ventennio dal ‘50 al ‘70 è stato di travolgente crescita economica e i migranti interni o esterni hanno svolto un ruolo determinante. Dopo l’89, finita la guerra fredda, si aprì l’opportunità di muoversi da est verso ovest con minori difficoltà.

Migrazione e immigrazione non sono sinonimi: indicano due varianti alla mobilità. Secondo Peter Gatrell, professore di Storia economica all’Università di Manchester, autore de L’inquietudine dell’Europa – Come la migrazione ha rimodellato un continente (Einaudi 2020), “immigrazione” significa che si prevede la sola andata senza un eventuale ritorno, “migrazione” presuppone invece dei viaggi di ritorno, senza quindi tagliare i ponti con il paese di origine.

L’attuale migrazione in Europa è frutto di una interazione tra convulsioni e opportunità generate da pressioni da oltre Europa ma anche all’interno della stessa. Secondo Gatrell le distinzioni tra le motivazioni che spingono alla migrazione (economiche, politiche) rischiano di diventare superflue. La migrazione non si può annullare, se non nelle fantasie dell’estrema destra. Dissensi e contrasti sono parte integrante della storia della migrazione europea e della storia europea tout court. Già molti anni fa Tony Blair dichiarò che la Convenzione per i rifugiati cominciava a mostrare i segni dell’età e Teresa May auspicò un “ambiente più ostile” per i migranti. Nicolas Sarkosy insisté su una politica più rigorosa, dove la selezione si basava su “criteri economici”. Anche in Olanda l’esponente di destra Pim Fortuny raccolse un notevole consenso nel 2001 con lo slogan “Islam retrogrado”, seguito da Geet Wilders, leader dei nazionalisti olandesi del Partito per la libertà.

I politici europei hanno trovato un conflittuale terreno di divergenza sul tema, concordando sulla opportunità di scaricare su altri i meccanismi di deterrenza, chiedendo ad esempio alla Turchia di tenersi i rifugiati siriani o alla Libia di trattenere coloro che vogliono varcare il Mediterraneo.

La migrazione ha sempre registrato la diffidenza verso i nuovi arrivati: avrebbero importato un’altra lingua e una nuova religione? Avrebbero creato un onere eccessivo per il welfare state? L’arrivo delle famiglie avrebbe ostacolato il presupposto secondo cui prima o poi i migranti dovevano tornare a casa? Nel 1973 su “Der Spiegel” comparve un articolo che parlava “invasione” e della nascita di ghetti a Berlino, Monaco, Francoforte dal titolo: Arrivano i turchi: si salvi chi può.

Interessi politici e reazioni dell’opinione pubblica non sono estranei. I successi dei partiti anti-immigrazione Alternative für Deutschland in Germania, Partito della libertà in Austria e i partiti di estrema destra in Italia ne sono il sintomo.

Oggi vediamo tornare in auge il concetto di stato-nazione e quindi la pretesa di difendere meglio i propri confini. Nel secondo decennio del 2000 sembra emergere nelle elezioni parlamentari un nuovo senso di rabbia verso i migranti, dimenticando che parte della ricchezza dei nuovi stati si fonda anche sul loro lavoro. Gli attuali dibattiti si basano sulle preoccupazioni per i numeri e la sicurezza, anche se tali argomenti sono pervasi di forte emotività. I migranti sono spesso sospettati di attività criminali, benché le statistiche dimostrino il contrario. Spesso si parla del lavoro rubato dai migranti ai locali ma nei servizi, non solo a bassa qualificazione, è avvenuto l’esatto contrario.

In definitiva sembra potersi concludere che, senza una ponderata e attenta riflessione su strumenti, misure, programmazione, interventi legislativi e non, il problema non può essere gestito, restando in balia delle sensazioni, strumentalizzazioni, umori e paure per un fenomeno non studiato a fondo, restando così privi della preparazione necessaria per affrontarlo.